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Best practice

Team dell'accesso vascolare: Modelli organizzativi

Testo

Chi fa che cosa oggi

Il Nefrologo e gli altri Specialisti

L’allestimento dell’accesso vascolare emodialitico nonché la gestione finalizzata al suo mantenimento nel tempo, richiedono sempre più che all’opera del nefrologo, che ha in cura il nefropatico e gestisce la terapia sostitutiva, si affianchi la collaborazione di altri specialisti. Il chirurgo vascolare, il radiologo interventista, l’infettivologo, ognuno per le proprie competenze, sono gli specialisti più spesso chiamati a dare il loro contributo per risolvere situazioni alle quali il nefrologo, da solo, non è più in grado di fare fronte “arrangiandosi”, come accadeva in passato, seppure in condizioni diverse dalle attuali.

Se le caratteristiche della popolazione dialitica sono cambiate nell’ultimo ventennio e con esse le condizioni operative, immutato resta il ruolo cardine del nefrologo cui spetta il compito di porre l’indicazione ad iniziare la terapia sostitutiva e, nel caso venga scelta l’emodialisi, di predisporre, dopo necessaria e adeguata informazione del paziente,  le indagini clinico/strumentali indispensabili per raggiungere i migliori risultati nell’allestimento dell’accesso vascolare.  Sempre al nefrologo spetta il non facile compito di ridurre al minimo gli effetti devastanti del late referral che comporta l’inizio tardivo e urgente della dialisi spesso effettuata con un accesso di fortuna, allestito dalle mani disponibili al momento e non sempre esperte. Viceversa, in condizioni elettive, il nefrologo, in analogia a quanto avviene in altre nazioni, o invia il paziente a consultazione dal chirurgo vascolare oppure procede di persona al confezionamento di una fistola o all’impianto di un catetere venoso centrale.

In USA, paese spesso considerato come modello sanitario, la fistola è confezionata dal chirurgo (non obbligatoriamente vascolare) ed il catetere venoso applicato dal radiologo. Casistiche operatorie anche recenti di chirurghi vascolari USA descrivono risultati di pervietà dell’accesso talvolta poco confortanti, mediamente inferiori a quelli ottenuti In Giappone e in Europa. Sempre in USA la prevalenza degli accessi protesici, dovunque giudicati di qualità inferiore rispetto a quelli con vasi nativi, risulta più elevata che in Europa.

Gli studi DOPPS, nel confronto tra i risultati ottenuti in diverse aree geografiche con differenti pratiche, hanno dimostrato che i migliori risultati in termini di qualità e durata dell’accesso, vengono raggiunti nei paesi dove l’opera del nefrologo – come supervisore o operatore -  è diretta o prevalente. Non è facile spiegare i motivi per cui il chirurgo vascolare, lo specialista più accurato ed esperto delle tecniche operatorie sui vasi, possa talora ottenere risultati più modesti rispetto ai nefrologi che sono divenuti chirurghi dell’accesso per necessità, più che per formazione. Una possibile spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che, in ultima analisi, l’accesso vascolare è per il nefrologo uno “strumento di lavoro e di cura”, strumento con cui si confronta quotidianamente al punto di conoscerne potenzialità e, soprattutto, difetti che, se non corretti o eliminati, portano al malfunzionamento con cattiva somministrazione della terapia dialitica.

Purtroppo in Italia mancano evidenze scientifiche in proposito, evidenze che è difficile registrare per l’elevata eterogeneità dell’organizzazione dei Centri Dialisi rispetto a questo problema. Anche il Gruppo di Studi degli Accessi Vascolari della SIN  ha più volte osservato come dalla sorveglianza al trattamento delle complicanze, il comportamento dei nefrologi differisca in maniera significativa da centro a centro. Pertanto l’ipotesi che il nefrologo che gestisce direttamente l’accesso (anche confezionandolo) abbia risultati superiori rispetto ad altre figure specialistiche, sul versante strettamente scientifico resta da dimostrare .

Aspetti Normativi

Per quanto riguarda la chirurgia dell’accesso vascolare per emodialisi, l’organizzazione (o la non organizzazione) strutturale assume in Italia connotati particolari.

La laurea in Medicina e Chirurgia e l’Abilitazione all’esercizio professionale sono in Italia gli unici requisiti per esercitare la professione di medico quindi anche di chirurgo. Il possesso della Specializzazione in Chirurgia non risulta indispensabile per eseguire interventi chirurgici ed è spesso solo propedeutico per assumere cariche dirigenziali;  fa eccezione la Radiologia, per l’esercizio della quale è espressamente necessario essere in possesso di specializzazione ad hoc.

Per quanto attiene all’accesso vascolare, non vi sono specifici regolamenti o determinazioni che attribuiscano le competenze per la sua confezione ad uno specialista in particolare; il paziente che ne necessita, si trova a dipendere in prima e spesso “unica” istanza dal medico erogatore del trattamento emodialitico, sia esso generico o specialista, nefrologo o altro.

Diverse leggi regionali stabiliscono che il Dirigente della Struttura Complessa presso la quale il Servizio di Emodialisi è inserito sia dotato della Specializzazione in Nefrologia o altra equipollente; pertanto chi è responsabile della terapia emodialitica, deve dotare il paziente di tutto quanto necessario alla terapia stessa, accesso vascolare compreso. Come questo avvenga, dipende dall’organizzazione che ciascun responsabile di Struttura ha reso esecutiva; pertanto potrà demandare il confezionamento dell’accesso vascolare – sia esso chirurgico o tramite CVC - ad altri specialisti operanti presso la stessa struttura (chirurgo vascolare, chirurgo generale, talora il chirurgo dei trapianti, anestesista/rianimatore, radiologo interventista) oppure, se in possesso della necessaria esperienza e attrezzatura chirurgica, eseguire direttamente tale confezionamento. Può organizzarsi per far realizzare l’accesso anche da specialisti impiegati presso altre strutture, purché sia operante una convenzione o altro tipo di accordo.

Le cause di risarcimento per attività chirurgiche riguardano sempre i casi di singoli pazienti che hanno affrontato un intervento. E’ sul singolo caso che la Legge riesce ad identificare e a dimostrare la colpa del Medico e la consequenzialità del danno subito dal Paziente. In realtà nella pratica clinica è frequente osservare che, anche in caso di assenza di colpa del Medico o di fronte a colpa minima, il Paziente risulti frequentemente e pesantemente danneggiato da carenze organizzative della Struttura presso cui riceve le cure.

Modelli organizzativi

Osservando la realtà italiana non è impossibile, seppur raro, individuare modelli organizzativi finalizzati al confezionamento e mantenimento dell’accesso vascolare emodialitico; dall’analisi di tali modelli è possibile rilevare i vantaggi anzitutto per il paziente per il Paziente e i possibili, potenziali svantaggi, in termini di rischio professionale, per il Medico.

Come altre terapie specialistiche l’Emodialisi in Italia è sorta per la volontà e la tenacia di singoli “pionieri” che si sono dotati di primordiali monitor per dialisi dovendo, fra l’altro, affrontare e risolvere il problema dell’accesso vascolare. Nelle varie città questo è avvenuto negli anni 60’ e 70’, per opera di clinici che hanno intuito la possibilità, anche nel nostro paese, di poter continuare a curare i nefropatici che non rispondevano più alla terapia conservativa, con un’altra terapia (sostitutiva) in grado di mantenerli artificialmente in vita. La stessa intuizione, addirittura finalizzata al trapianto renale o alla cura di neoplasie, l’hanno avuta  chirurghi ed urologi. Tali pionieri, indipendentemente dalla loro estrazione culturale, hanno dovuto imparare, a volte in maniera autodidattica, le tecniche di confezionamento dell’accesso vascolare, sia dello shunt esterno arterovenoso (inventato da B. Scribner, un nefrologo) sia del cateterismo venoso femorale (introdotto da S. Sheldon, nefrologo). Sicuramente le condizioni operative di allora erano molto diverse dalle attuali.

Negli anni successivi i chirurghi italiani - a parte mirabili eccezioni di pochi che, avendone compresa l’importanza, si sono dedicati con passione e grandi risultati all’accesso vascolare emodialitico - non hanno mostrato mediamente interesse per tale pratica. Il confezionamento dell'accesso in Italia il chirurgo ha preferito lasciarlo al nefrologo, salvo intervenire solo se espressamente coinvolto per sopravvenute gravi difficoltà tecniche (non alla portata del nefrologo) o condizioni di ischemia periferica. Solo nell’ultimo decennio è cresciuto in Italia il gruppo di chirurghi vascolari interessati a tale attività. L’interesse coincide temporalmente con l’introduzione del sistema DRG, che conferisce alla chirurgia dell’accesso vascolare in regime di ricovero un rimborso separato da quello che riguarda la prestazione dialitica.

In Italia ora esistono modi diversi di approcciare e risolvere la confezione e gestione dell’accesso vascolare dialitico; non esiste un modello organizzativo standard adottato da tutti i centri perché, come già accennato, le risorse e gli strumenti a disposizione sono molto differenti nei vari ospedali. Si può certamente affermare che tanto diverse sono le organizzazioni quanto simili i problemi che accomunano le varie dialisi, problemi peraltro più complessi di quelli degli anni ’70. Oggi il trattamento emodialitico è a disposizione di tutti coloro che ne necessitano, indipendentemente dall’età e/o dalla presenza di altre patologie. Questo successo della medicina, ha aumentato fortemente il numero di persone anziane in trattamento – portatrici fra l’altro di patologie vascolari - nelle quali l’accesso vascolare è divenuto quasi una sfida.

Di solito, dopo il confezionamento della prima fistola arterovenosa - quando possibile realizzata con vasi nativi nella porzione distale dell’avambraccio - dopo un intervallo temporale ampiamente variabile si assiste al suo deterioramento fino alla completa perdita per trombosi o altro. Quando possibile per il suo riconfezionamento e/o disostruzione  si rendono necessari, oltre alla soluzione chirurgica, interventi endovascolari come trombectomie e angioplastiche. L'obiettivo è quello di continuare a mantenere un accesso arterovenoso con vasi nativi o in seconda scelta protesico, rimandando il più possibile il ricorso al cateterismo venoso. La riparazione delle fistole arterovenose native può richiede l’uso di protesi vascolari o comunque interventi di una certa complessità tecnica (superficializzazioni vascolari, rivascolarizzazioni per ischemia ecc) solitamente eseguiti da esperti chirurghi vascolari con specifica competenza in proposito.

Parimenti all’applicazione di cateteri venosi femorali e giugulari, fanno spesso seguito trattamenti endovascolari radiologici, necessari per ristabilire la pervietà delle vene centrali inevitabilmente danneggiate dal dispositivo. Inoltre l’infezione dei cateteri venosi è causa frequente e ripetuta di batteriemie che richiedono ricoveri e terapie specialistiche da parte dell’infettivologo. Va ricordata la potenziale gravità delle batteriemie per il rischio elevato di endocardite, osteomielite, shock settico e decesso.

Primordiale - Nefrologico

Nel corso degli anni diversi responsabili dei centri dialisi, formati in parte dai lori maestri e a contatto con i vari specialisti (chirurgo vascolare, radiologo, infettivologo..), si sono impadroniti delle tecniche necessarie all’allestimento e mantenimento dell’acceso vascolare, si sono dotati – quando hanno potuto - di una sua sala operatoria dedicata o sono ricorsi a quella istituzionale. Questa tipologia di modello organizzativo, che potremmo definire “nefrologico”, vede ancora al centro, come avveniva negli anni ’70, il nefrologo regista e primo attore dell’accesso vascolare.

Un’organizzazione del genere, apparentemente semplice, utile e vantaggiosa, oggi non è più proponibile a chi, partendo da zero, intende occuparsi direttamente degli accessi in maniera quasi esclusiva. Le ragioni sono abbastanza ovvie:

  1. le scuole di Specialità non preparano i futuri nefrologi a questo compito
  2. il rischio di errore, soprattutto laddove è carente l’esperienza, è molto superiore ai vantaggi e può condizionare pesantemente - se non inficiare - la copertura assicurativa
  3. i pazienti sono sempre più attenti al risultato.

Il rapido accrescimento e diffusione delle conoscenze specialistiche, la disponibilità di materiali e apparecchi (p.e. radiologici) in continuo progresso tecnologico, le necessità di aggiornamento specialistico costante rendono facilmente conto dei limiti evidenti di questo modello troppo "incentrato” su un’unica figura professionale.

Polispecialistico

L’alternativa è un modello diverso e del quale si cominciano a vedere in Italia alcuni esempi, che potremmo definire “polispecialistico”. In questo caso il nefrologo, responsabile della terapia dialitica, delega ad altri specialisti, a seconda delle necessità, il confezionamento e la cura dell’accesso vascolare.

Gli specialisti coinvolti sono sempre gli stessi (chirurgo vascolare, radiologo interventista, infettivologo), ma con un ruolo diverso rispetto al modello precedente. Quando il paziente presenta un problema, si rivolge in prima istanza al nefrologo;  questi, dopo aver messo a fuoco il problema, delega allo specialista di competenza la risoluzione. Il risultato è che il nefrologo, colui che gestisce l’accesso, finisce per essere “tagliato fuori” da tutto l’iter risolutivo e decisionale che condurrà alla confezione/riparazione dell’accesso. Il suo solo compito sarà quello di identificare i tempi in cui i singoli specialisti dovranno intervenire.

Al di là delle difficoltà relazionali che potrebbero ostacolare la realizzazione di tale modello, non si può non rilevare come l’autonomia con la quale comunemente ogni specialista affronta le consulenze, rischi in questo caso di generare risultati potenzialmente non utili al paziente. In altri termini non è detto che il semplice invio di un paziente al consulente chirurgo o al consulente radiologo riescano effettivamente a risolvere il problema del funzionamento dell’accesso e nei tempi necessari. Una variante particolarmente temibile di tale modello è quella in cui è lo stesso paziente che prende l’iniziativa di andare dal chirurgo a farsi confezionare l’accesso o dal radiologo a farselo correggere. La mancanza, da parte della specialista, della conoscenza dell’intero programma terapeutico, delle necessità depurative del paziente e di altre importanti informazioni nefrologiche può comportare insuccessi evitabili.

Integrato

E’ ormai opinione diffusa, in ambito nefrologico nazionale, che, per affrontare i problemi di una realtà complessa come quella dell’accesso vascolare, sono necessari più specialisti che abbiano però in comune, prima di ogni altra qualità, una conoscenza, la più profonda possibile, dell’accesso vascolare dialitico. Non basta ad esempio la disponibilità di un radiologo interventista considerato di “buon livello”, ma ne occorre uno che conosca a fondo le problematiche dell’accesso vascolare per emodialisi e soprattutto sappia pianificare, al termine dell’intervento, la “mossa” successiva in quel paziente. Lo stesso vale per il chirurgo vascolare e per l’infettivologo. Se l’infettivologo - tanto per citare un esempio di una collaborazione che si rivela sempre più utile - ha scarsa esperienza di batteriemie correlate a catetere venoso da emodialisi, è logicamente più orientato a prescrivere l’asportazione del dispositivo, piuttosto che indicare come trattare il paziente cercando, in prima istanza, di salvare anche il catetere per effettuare il trattamento.

E’ necessario allora indirizzare determinate competenze specialistiche alle necessità del paziente, conosciute, prioritariamente dal nefrologo; solo condividendo progetti, percorsi e strumenti – qui primeggia il ruolo del nefrologo – si aumenta, e di molto, la probabilità di risultati positivi.

Della condivisione deve far parte anche il paziente il quale, costantemente e adeguatamente informato dal nefrologo, avrà minori difficoltà a relazionarsi con gli specialisti esterni al suo reparto di dialisi. Perché il dialogo sia a più voci e in tempi adeguati è necessario che “ gli attori sulla scena dell’accesso siano tra loro vicini e soprattutto capaci di recitare a soggetto seppur coordinati da una sapiente regia” .

Quali i requisiti per realizzare tale progetto?

Occorre, anzitutto, che le conoscenze sull’accesso vascolare siano condivise e che si formi una cultura comune tra i vari specialisti operanti all’interno dello stesso gruppo. E’ fondamentale, ad esempio, che il radiologo interventista o il chirurgo vascolare abbiano conoscenza diretta – acquisibile solo in sala dialisi - dell’utilizzo dei vari accessi vascolari; ma, ancor prima, sarebbe fortemente auspicabile che l’insegnamento teorico sugli accessi vascolari venisse erogato istituzionalmente nelle varie scuole delle specialità coinvolte.

Non va poi dimenticato che tra i vari operatori dell’accesso un ruolo fondamentale spetta agli infermieri del centro dialisi che tre volte la settimana esaminano l’accesso, lo utilizzano e per primi ne valutano condizioni ed efficienza. Per quanto costoro non prendano parte direttamente alle fasi di progettazione, confezionamento e/o trattamento chirurgico/ endovascolare, non è immaginabile dare corso a una buona gestione dell’accesso senza il  totale coinvolgimento degli infermieri professionali, ad iniziare da quello culturale. Infine in questo modello ideale assume un ruolo importante lo stesso paziente che deve essere costantemente informato sulle difficoltà a mantenere efficiente il suo accesso e sui rischi legati alle possibili complicanze; ne deriva la necessità di assumere comportamenti finalizzati a favorire la sorveglianza dell’accesso e a facilitare, attraverso una compliance consapevole, la rapida risoluzione dei problemi di malfunzionamento.

Come precedentemente anticipato, nel gruppo integrato di specialisti dell’accesso, il ruolo chiave e certamente il più difficile rimane quello del nefrologo operante in dialisi. La sua responsabilità nella somministrazione della terapia dialitica gli impone di essere arbitro dei tempi e delle strategie. Sempre al nefrologo spetta il compito di individuare che cosa sia più utile per il paziente: se anticipare la puntura di una fistola, a rischio di provocarne l’insuccesso, o lasciare il paziente in terapia conservativa oppure optare per un catetere venoso. Suo anche il compito di valutare i rilievi clinico-strumentali raccolti in ambito infermieristico confermandoli con l’esame obiettivo e le valutazioni strumentali pauci-invasive, al fine di porre indicazione a correzione di eventuale malfunzionamento.

Per fare quanto sopra, anche il nefrologo dovrà costantemente aggiornarsi su trattamenti, tecnologie e tecniche riguardanti l’accesso vascolare, argomento che ancora oggi, in diversi ambienti qualificati della nefrologia italiana, viene considerato marginale. Diversamente il nefrologo dializzatore, poco attento e quindi poco sensibile al problema, rischierebbe di essere il maggiore ostacolo alla costituzione del gruppo integrato di specialisti; si creerebbe in tal modo il paradosso dell’impossibilità di ottenere risultati pur avendo a disposizione strumenti importanti quali ottimi specialisti collaboranti.

Il modello organizzativo ideale – forse come tale il più difficile da realizzare – è il team degli accessi vascolari operante in un’unica struttura ospedaliera. In pratica significa creare la possibilità di affrontare e risolvere i problemi dell’accesso vascolare attraverso un servizio erogato sull’arco di tempo di un intero anno senza interruzioni di alcun genere. Tale servizio avrebbe una particolarità: quella di essere operativo anche se “virtuale” sul versante strutturale; un servizio in qualche modo trasversale alle varie specialità coinvolte. Il ritorno, in termini di vantaggi per il paziente e indirettamente per le Aziende che avrebbero la possibilità di ottimizzare risorse sempre meno corpose, è fuori discussione.

 

Il Modello Integrato

Per dare vita ad un modello come quello appena citato non basta la disponibilità e l’entusiasmo dei vari attori; è necessaria una precisa volontà degli amministratori a prendere atto (e ad agire di conseguenza) che l’accesso vascolare è fra i problemi più importanti della dialisi.

DRG: limiti

Da quando gli ospedali pubblici si sono trasformati in Aziende Ospedaliere, le cure prestate attraverso vari tipi di ricovero sono classificate secondo il sistema dei D.R.G. che serve anche a determinare il rimborso delle Regioni a tali aziende e a quelle private convenzionate.  Oltre a coprire le spese, il rimborso può generare profitti o perdite che, almeno nel settore pubblico, non hanno ricadute sulle retribuzioni dei dipendenti.

La quantificazione dei DRG, importata dal sistema nordamericano, è rimasta immutata nel tempo e oltretutto non esprime il reale valore/costo delle procedure. Nel campo degli accessi vascolari della dialisi tale quantificazione presenta incongruenze che talvolta spingono a comportamenti contrari alla migliore cura del paziente. L’applicazione del DRG all’attività di confezione degli accessi vascolari è il riconoscimento di fatto di una procedura eseguita indipendentemente dal risultato ottenuto.  Ne consegue, per assurdo, che una fistola artero-venosa ben confezionata e duratura nel tempo, abbia lo stesso peso, in fatto di riconoscimento, di una che si trombizza pochi minuti dopo la confezione. La logica del DRG appare condivisibile in altre attività chirurgiche nelle quali – supponiamo un’appendicectomia - l’organo malato viene rimosso una sola volta, sia che si verifichino o manchino complicanze. Al contrario nell’accesso emodialitico ogni insuccesso richiede, quando va bene, la ripetizione dello stesso intervento o di altri in successione, più complessi e costosi. Quindi l'insuccesso genera  DRG plurimi fino al raggiungimento del successo. Tale logica penalizza chi è in grado di ottenere i migliori risultati e premia i peggiori operatori.

Non va ancora dimenticato che, nel campo degli accessi vascolari per dialisi,  la procedura chirurgica - anche se eseguita perfettamente ed ai massimi livelli - non è garanzia di risultato per il paziente. Come già accennato, a differenza della chirurgia tradizionale nella quale ogni intervento è finalizzato ad asportare o riparare organi malati, in quella degli accessi si richiede la costruzione di sistemi che  vanno contro la fisiologia per poter in seguito "accedere" al sistema vascolare del paziente.

Quando il rimborso secondo DRG arriva a condizionare le scelte terapeutiche, è inevitabile - pur restando censurabile - che alcune procedure vengono “ricercate", altre evitate. Il DRG infine prevede il rimborso unicamente per il reparto di degenza, quindi non favorisce sulla carta l’aggregazione di specialisti di differenti discipline e la condivisione di programmi assistenziali. In conclusione il sistema DRG non promuove quell’organizzazione, che, nel campo degli accessi vascolari, è indispensabile.

Alcuni strumenti amministrativi potrebbero limitare i danni prodotti dal rimborso a DRG nell’attività di confezione degli accessi vascolari. Basterebbe, ad esempio, accreditare le strutture assistenziali in base alla validità del modello strutturale integrato che detengono e in base ai percorsi assistenziali.

Motivazione personale

Le poche inchieste finora condotte, ci dicono che in Italia un discreto numero di nefrologi confeziona accessi vascolari in quantità superiore a quella dei pochi chirurghi vascolari che lo fanno. Dal confronto non emerge alcuna valutazione se non la considerazione che quelli che si occupano di tale chirurgia – indipendentemente dalla branca di appartenenza - lo fanno perché hanno trovato una motivazione. Può trattarsi di una motivazione personale, ma anche promossa dall’azienda ospedaliera oppure da altra organizzazione (programma regionale, associazione dei malati).

E’ stato detto che il nefrologo esegue la chirurgia degli accessi vascolari per una sorta di “vocazione al volontariato”. Ma il volontariato ha motivo di esistere nel terzo mondo, dove l’organizzazione civile non esiste o ha fallito. Nel primo mondo, quello altamente civilizzato, il paziente che ha diritto alla salute, ha diritto anche all’accesso vascolare se è funzione della sua salute, perciò il suo confezionamento non deve dipendere dalla buona volontà di un pur generoso sanitario, ma essere prestazione di un professionista strutturato con l’attribuzione di precisi doveri. 

Responsabilità

In mancanza di una struttura, all’interno dell’Azienda ospedaliera, dedicata agli accessi vascolari per dialisi, la responsabilità professionale di errori eventualmente commessi sarà difficile da dimostrare e quantizzare, soprattutto se le conseguenze, anch’esse poco valutabili, non saranno macroscopiche. Il rischio legato alla confezione degli accessi è strettamente correlato con la tipologia degli stessi e, ovviamente, con le capacità degli operatori. Forse non è sbagliato ritenere che il rischio connesso all’impianto di CVC – attività che avviene “a cielo coperto” – sia maggiore a quello che si corre affrontando vasi che possono essere dominati sotto visione diretta. Il sistema sanitario pubblico dovrebbe rivisitare quest’argomento  e predisporre i necessari controlli e misure.

Percorsi assistenziali

Possono essere di vario genere -locali, regionali, nazionali- ma sono indispensabili. Devono indicare dei doveri e dei vincoli necessari a garantire al paziente almeno il minimo assistenziale. Quindi il sistema di rimborso ora basato sul singolo atto (DRG) dovrebbe essere riversato su un progetto e seguito dalla verifica del successo della sua realizzazione.

La complessità dell’accesso vascolare e la conseguente necessità che  figure diverse contribuiscano al suo funzionamento (infermieri, nefrologo, chirurgo vascolare, radiologo) implica che tutti costoro dovrebbero essere premiati una volta verificato il successo.

Essendo la presenza di un accesso vascolare funzionante indispensabile per l’erogazione del trattamento emodialitico il costo del suo confezionamento e mantenimento dovrebbe essere quota parte del costo di gestione dell’uremico in trattamento dialitico.

Formazione

I modelli organizzativi, soprattutto quelli che implicano l’integrazione fra varie figure specialistiche e professionali, non possono nascere se non dal possesso, prima di ogni altro elemento, delle stesse conoscenze sulla tematica che andranno ad affrontare. Serve anzitutto cultura di base e questa non può che avere un'unica sede per essere dispensata: le scuole (di specialità per medici e di infermieristica per il personale assistenziale). E proprio nelle scuole deve avvenire il primo passo di integrazione interdisciplinare attraverso insegnamenti che accomunino, sull’argomento, i vari specializzandi. In altri termini: il chirurgo vascolare sarà formato dal docente nefrologo e viceversa, al fine rendere univoche le conoscenze sulle quali si fonderà la collaborazione. Se vogliamo essere di aiuto ai pazienti e alle future generazioni di nefrologi, dobbiamo puntare, fin da ora, su di una formazione seria e rigorosamente integrata.

Conclusione

L’accesso vascolare, parte integrante della terapia dialitica, condiziona pesantemente la qualità di vita del paziente e il costo assistenziale della dialisi.

Una corretta gestione dell’accesso vascolare prolunga la vita del soggetto in dialisi e la migliora, riducendone il costo assistenziale.

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pubblicata il  02 ottobre 2012 
Da Luigi Tazza
Parole chiave: accesso vascolare, fistola arterovenosa

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